Overblog
Edit post Segui questo blog Administration + Create my blog

la voce di simeone

la voce di simeone

cultura e spiritualità


LA PESTE NERA DEL MONACO BERNARDO (e di Boccaccio da Certaldo)

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 20 Agosto 2017, 10:24am

Tags: #I PADRI, #la storia

LA PESTE NERA DEL MONACO BERNARDO (e di Boccaccio da Certaldo)

http://www.vatican.va/img/vuoto.gif

Mentre infuria la peste – dico “la Peste Nera”, anno 1348 – quella rimasta negli annali come la peggiore che si ricordi, in Occidente, una ecatombe vera; quella che in tanti anche allora avrebbero letto come l’espressione della grande ira di Dio (ben diverse la sensibilità e la conoscenza otto secoli addietro); un uomo “non qualunque, nel senese, a settantasei anni, decide con i suoi di ritornare ad occuparsi di ciò di cui si era preso cura da giovane: assistere gli appestati.

Si trattava di Bernardo Tolomei (il nome è quello acquisito da “consacrato” vista la sua ammirazione sconfinata nei confronti del cistercense, Bernardo di Chiaravalle).

Giovanni Bernardo, aristocratico, fu cavaliere (miles) ai tempi di Rodolfo I d’Asburgo. Ed era stato studente in materie giuridiche. Si era dedicato con la Confraternita dei Disciplinati di Santa Maria della Notte, attivi nell’ospedale della Scala, al servizio dei ricoverati. Mentre una progressiva, quasi totale cecità provocò la rinuncia ad una carriera pubblica.

Solo a quarant’anni egli decide di realizzare in modo più assoluto il proprio ideale cristiano ed ascetico, nel 1313, insieme a due concittadini impegnati nella mercatura e nel commercio (il Beato Patrizio Patrizi † 1347 e il Beato Ambrogio Piccolomini † 1338), nobili senesi anch’essi appartenenti alla predetta Confraternita, allontanandosi da Siena, si ritirò nella solitudine di Accona, a circa 30 km. a sud-est della città. In quella regione Giovanni (che nel frattempo aveva assunto il nome di Bernardo), insieme con i suoi compagni condusse vita eremitica in alcune grotte scavate nel tufo. La vita penitente di questi laici eremiti era caratterizzata dalla preghiera, dalla lectio divina, dal lavoro manuale e dal silenzio. Altri compagni venuti da Siena, da Firenze e dalle regioni circostanti, si unirono presto a loro; il loro modello era la forma di vita degli Apostoli e dei primi monaci della Tebaide.

Il resto ve lo risparmio perché lo si può trarre dalle numerose fonti ufficiali e meno che indicano l’iter e il riconoscimento progressivo di quell’Ordine legato alla famiglia benedettina (sub Regula Sancti Benedicti - 1319) che da lui prende le mosse e che, nel giro di vent’anni può già contare su di una quindicina di monasteri differenti sparsi in Italia.

Sono gli Olivetani (Santa Maria di Monte Oliveto, il nome), vestiti di bianco. Non fu mai sacerdote, mentre il suo misticismo ci è raccontato dalla tradizione dei suoi colloqui con il Crocifisso e da apparizioni di santi (per esempio San Michele).

Il 1348 però, come accennavamo, lo riportò indietro, a Siena e tra la sua gente. Lasciò Monte Oliveto per recarsi nel monastero di S. Benedetto a Porta Tufi, in Siena. Qui, assistendo i suoi concittadini e i monaci colpiti dall’infezione altamente contagiosa, morì egli stesso vittima della peste, con 82 monaci, in una data che la tradizione fissò al 20 agosto 1348. Fu sepolto nelle vicinanze della chiesa del monastero senese. Tutti i cadaveri degli appestati furono deposti in fosse comuni, nella calce viva, fuori della chiesa; gli scavi successivi non hanno consentito di identificare le reliquie di Bernardo.

Di lui rimangono frammenti di 48 lettere e una omelia.

Più ancora mi piaceva però immaginare quasi come materia di un romanzo che magari scriveremo, di quest’uomo richiamato in campo - lui sì! - mentre fuori la morte mieteva vittime come mai si era veduto. E come avrebbe narrato nel I capitolo introduttivo del Decamerone, Giovanni Boccaccio, pagine che avrebbero ispirato anche il Manzoni (le epidemie incontrollate – è noto - sarebbero state sempre una grande prova letteraria, lo sappiamo: Lucrezio dopo Tucidide; i cronisti alto e basso- medievali, Paolo Diacono e poi Boccaccio; Manzoni e Thomas Mann, Zola e Camus tra i tanti che ricordo …).

Un po’ un fra’ Cristoforo e un po’ invece il più affine eremita, quella di Bernardo finisce col diventare una figura emblematica, quasi un paradigma di santità, come “l’amore al tempo del colera” di marqueziana memoria, così forzando i titoli ed i toni. E di pesti, del resto, ce n’è sempre – e d’ogni tipo – in giro per il mondo, sempre. I Bernardo magari un po’ meno …

Quel ’48 mi piace riportarlo direttamente dal Decamerone, per dire solo e sommessamente che al dolore gli uomini rispondono con l’impegno e con la voglia di vivere. E quindi di raccontare, come i novellatori del poeta di Certaldo …

Eccovi serviti:

 


 

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto [1], quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori [2] o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.
E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali [3] sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella [4] certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. [5] E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui [6] grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano.
E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare.
Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna persona udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare. [...]
E come che questi così variamente oppinanti [7] non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.
Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti [8] servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno [9], e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere abbandonati gli infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati [10], campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra quali rimanean vivi. [...]
E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’ alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate [11]) come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ’l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! [12] O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati!

 

 

  

 

 

Per essere informato degli ultimi articoli, iscriviti:
Commenta il post

Archivi blog

Social networks

Post recenti