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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


CHE DI QUEL SI CHERE E DELL'ALTRA SI RINGRAZIA

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 26 Maggio 2017, 11:34am

Tags: #I PADRI

CHE DI QUEL SI CHERE E DELL'ALTRA SI RINGRAZIA

Quindi abbia il sopravvento la gioia del Signore, finché non sia finita la gioia del mondo.

Così scrive Agostino in uno dei suoi Discorsi, utilizzato come lettura corrente, in occasione della festa di San Filippo Neri, oggi. Ma non è di Filippo Neri che volevo dire. E neppure della ricorrenza.

Volevo tornare su questo argomento della letizia e della gioia che già altre volte mi è capitato di sfiorare.

Le parole di Agostino, anche quelle che si trovano più avanti (rallegratevi nel Signore, non nel mondo …) offrono spunti e pure qualche pretesto strumentale e che a mio avviso può prestarsi ad una interpretazione fuorviante.

Agostino non altro vuole rimarcare come la gioia che deriva da certe dinamiche (il successo, il denaro, assolutizzare ciò che finisce) è effimera rispetto ad una gioia interiore che ti rende però, a ben vedere, apprezzabile ogni altra cosa, fuorché l’abuso dell’altro e la sopraffazione.

E’ un principio morale minimale, in realtà: “non ritenere che questo basti a renderti felice”.

E infatti, a conti fatti, concluderei che non lo è.

C’è quell’altra gioia, quella che nel testo è detta “del Signore” che si  potrebbe coniugare anche in molti altri modi: ed è una gioia che rimanda ad un Assoluto, cioè al valore del vivere (e anche del morire).

Il suo valore sta nelle altezze. Nel saper guardare ed apprezzare ogni cosa come non imprescindibile, eppure godibilissima. E infine nel relativizzare ciò che altrimenti angustia (“il Signore è vicino. Non angustiatevi per nulla” Fil. 4,5-6).

Esisterebbe in definitiva una distanza tra la gioia e il mondo, i suoi “affari” (quello che gli anglofoni intendono bene per “affair”) che è riempita dalla valutazione di questi stessi: essi non sono definitivi.

Credo che non sia solo il credo del monaco e neppure solo del filosofo epicureo che a tutta prima parrebbe aver messo lo stesso distacco tra la sua serenità e la vita, quella che passa. E passa, passa …

Credo che sia la via di salvezza (non esattamente di fuga) per ogni uomo. Perciò la massima con cui abbiamo aperto potrebbe sembrare minimalista, come tale universalmente condivisibile, e persino – mi si lasci dire – un po’ demagogica.

Sarebbe solo il buon senso comune. E in tal caso, gli esiti sono pure garantiti, purché della vita non si voglia fare un altro genere di avventura. Tanto che mi dico che se questa vita fosse tutto, non sarebbe meglio bersi a fondo ogni cosa, con avidità?

E’ quello che scrive tra le righe del resto l’apostolo, sottolineando che se non ci fosse tutto il resto, la risurrezione e un altro mondo, saremmo proprio degli sventurati. Io direi “dei visionari frustrati”, vittime di un sogno e di una fede che si fa “instrumentum regni” e mezzo di controllo sociale: ci spinge ad essere tutti più buoni e morigerati, rassegnati.

Lo scarto, per Agostino e per molti come lui, sta invece nell’individuazione di una gioia non atarassica, che deriva appunto dalla sua fede nel Signore.

E qui le cose cambiano di molto e le strade si divaricano tra pensiero comune e non, pur ammettendo in tutta onestà che di quella gioia autentica, evidente (e non caciarona abborracciata ostentata), tra chi crede, se ne vede pochina ...

Il fatto è che, al di là di ogni apparenza, la gioia e la letizia a cui Agostino fa riferimento, come poi fa tutta la tradizione e come appare chiaro in Francesco e nei primi suoi seguaci, non è detto in alcun punto che debba suonare ilare ad ogni costo, rumorosa, evidente, mostrata e talora pacchiana.

Qui ci si riferisce ad una letizia interiore (che è poi l’unica che conta qualcosa), che è un cielo sereno piuttosto che una notte piena di botti per Capodanno.

Conoscendo un po’ Agostino per i miei poveri studi compiuti fin dai tempi dell’Ateneo, è questo che intende; così che bisogna stare attenti a non voler dare di questa gioia un’immagine differente.

Come se un credente non dovesse essere anche pensoso e problematico, se occorre. Come se non dovesse aver dentro un oceano profondo, talora squassato dai marosi.

Quella gioia composta (composita), cioè frutto di un equilibrio di maree e di bufere, di correnti e di momenti di pace, resta pericolosamente in piedi – a volte più, a volte meno – anche in quelle occasioni. E neppure sempre. Talora, il mondo continua a ferire e a lacerare la nostra speranza che è molto simile ad una qualche favorevole letizia, beninteso. E ci sta pienamente.

Se Agostino e Paolo raccomandano “non angustiatevi” è perché sanno benissimo quanto sia facile e comune farlo. Sanno di come ciò che è attorno, prometta e conceda qualche gioia che poi ci viene sottratta. Perché le cose finiscono.

Che il mondo è bello, attraente; e che talora è anche capace di farci fare salti di gioia. Lui sì. Mentre la letizia o quella gioia del Signore in fondo è proprio un’altra cosa. E’ composta e composita appunto: nasce da una riflessione e da un valutazione. Somiglia un po’ agli effetti del dopo Capodanno, dopo i botti e la sbornia, pur essendo più duratura dei buoni propositi dopo il mal di pancia e la nausea della sera prima.

Come direbbe Dante insomma “che di quel si chere e dell’altra si ringrazia”.

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