Cent’anni. Ho appena fatto la proposta all’editore, di ricordarlo questo 2020 che verrà, alle porte ormai, due volte 20 nella grafica numerica, e una cifra tonda tonda, non del tutto insignificante. Ne conosco di quei ragazzi degli anni 20. Ne conosco e ne ho qualcuno per amico e persino per paziente confidente. Ma loro, dei ’20, non possono ricordare nulla, se non del fatto di sapere di essere venuti al mondo e di essere stati iscritti a quel tempo, all’anagrafe. Qualcuno, come mio padre, ricorda la sua prima infanzia a New York. E quale New York fosse quella, per gli italiani, è presto detto: c’è tanta letteratura e molto cinema sul tema. Poi ci sono i racconti dei nostri nonni ...
C’è poi l’emeroteca. E c’è infine la Rampante America di quella stagione, I Ruggenti Anni 20, messi tra una catastrofe e l’altra, le Guerre Mondiali, intendo; anni da Grande Gatsby e bevute; di Francis Scott Fitzgerald. Ho molto amato quella letteratura e quel cinema, il primo cinema dei pionieri: dopo Douglas Fairbanks junior e Mary Pickford; dopo di loro e Gloria Swanson, sbarcano Garbo, Dietrich e così via, il divismo.
Le foto che mia nonna aveva nel cassetto, delle sue parenti in America, erano di quella specie, di quel tenore.
Ho proposto all’editore questa celebrazione, e mi sono ritrovato negli annali, la memoria delle Olimpiadi di Anversa, organizzate in gran fretta in un anno appena. Che furono sottratte a Berlino che, da sconfitta, neppure vide i tedeschi partecipare ai giochi. Mentre vide in campo per la prima volta in modo ufficiale e competitivo, le donne. Perché divismo e dintorni, diritto al lavoro più o meno acquisito, la coscienza di queste – vivaddio – cresceva. Furono dei Giochi posti in mezzo a due tragedie.
Nel primo conflitto erano morti 115 atleti olimpici, della edizioni precedenti. E lo sport sarebbe diventato sempre di più lo strumento di propaganda di ogni nazionalismo, di ogni manifesto ideologico, se non della razza. Prima l’era nazifascista. Poi l’Urss, la DDR; poi la Cina. I vecchi scrittori semplicemente sosterrebbero che il mondo non cambia. Che senescit semmai, cioè diventa sempre più vecchio. Anche nel senso che ripete vichianamente sempre le stesse dinamiche e le stesse cose. O che nulla di nuovo sotto il cielo, come l’Ecclesiaste e la pazienza di Giobbe. Che questo è l’uomo. Guai a scandalizzarsene.
Nel 2020 - che sarà come un 1010 doppio, in quanto a iterativa sequenza numerica, 1010, quando non mi sembra che sia accaduto nulla di eccezionale – di memorabile e di simbolico (la storia più si allontana e più si appiattisce) - se non che la gente ha continuato a nascere ed a morire, come sempre, con i conflitti, le malattie, le febbri, le ansie e le paure di sempre, ogni età ha le sue – sono pure cent’anni da Canne al vento di Deledda, dai Guermantes del Temp Perdu di Proust; cinquecento dalla morte di Raffaello; cento da Anversa, a più due dalla fine della I Guerra Mondiale e a meno due o tre dall’inizio di certe ere che avrebbero incendiato il continente.
Sulla pista trionfava il divino finlandese Paavo Nurmi. In pedana vinceva l’italiano Nedo Nadi e sullo schermo le donne piangevano e sospiravano col muto. Il Titanic era appena affondato e ci si preparava alla crisi dell’ottobre del 29. Fine della Festa, fallimenti in serie e povertà diffusa. Molti emigrati italiani sarebbero tornati a casa.
Il capro espiatorio, il colpevole fu individuato: lo si mise fuori legge; gli si requisirono i beni; gli si sottrassero i diritti essenziali, le cattedre universitarie, le attività lecite; lo si dichiarò apolide e inferiore. Poi lo si passò per il gas. La storia è tutta una sequenza. E i giochi, pure quelli olimpici, ne sono una metafora.
Molti anni dopo, una cantante, in Italia, cantava, indicandolo come lontanissimo, l’anno 2023. Quando tutto sarebbe cambiato. O finito. Era una cover, però. Appunto.