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cultura e spiritualità


Gli ottanta anni delle imprese della Banda Koch

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 29 Gennaio 2024, 12:17pm

Tags: #la storia

Gli ottanta anni delle imprese della Banda Koch

Per una pura coincidenza – tal era stata – questa mattina mi sono ritrovato a tentare di ricordare il nome di quella nota coppia di attori (così mi scervellavo nda.) da telefoni bianchi (si trattava di un vero e proprio filone edulcorato della cinematografia italiana in voga e promosso dal regime durante l’era fascista).

Compiendo dunque uno sforzo neppure troppo sostenuto, alla fine sono riemersi dalla memoria i nomi di Valenti e di Ferida. E con loro, immediatamente quello della banda Koch, ai quali essi vengono notoriamente associati.

Così facendo, detto che se del primo (Osvaldo Valenti) la collaborazione con la banda è accertata, mentre di Luisa Ferida si sostiene la sostanziale estraneità alla vicenda, mi sono ritrovato tra le mani un triste anniversario a cui confesso che non avevo pensato. Si tratta della costituzione di quella banda di criminali e massacratori legalmente riconosciuti, Reparto Speciale di Polizia Repubblicana (1943), organicamente al servizio di SS tedesche e del Regime, poi della Repubblica Sociale, quella di Salò.

E che ai primi del febbraio del 44 (80 in questi giorni, dunque) metteva a segno una delle sue gesta più sciagurate e clamorose, non la prima di questo tipo: l’irruzione e il rastrellamento di rifugiati (con la conseguente esecuzione in moltissimi casi dopo i fatti di via Rasella) fin dentro le mura vaticane di San Paolo fuori le Mura, a Roma. Da qui la Banda avrebbe portato via una settantina di uomini tra ebrei ed antifascisti, di renitenti alla leva, violando inoltre ciò che si era sancito anni prima tra Santa Sede e Terzo Reich, tra Vaticano e Stato Italiano, l’extraterritorialità degli istituti e delle chiese cattoliche.

E’ noto che molti fu in quei luoghi che trovarono riparo. E che per inciso, ragguardevole fu il ruolo svolto dal futuro papa Montini, nel frattempo allontanato da Roma dal filo-germanico Eugenio Pacelli di cui pure abbiamo scritto altre volte ed il cui processo di beatificazione ed altro giace, con buona pace di molti, tra le pratiche che per ora appaiono difficilmente licenziabili.

La storia della banda Koch (per chi non ne avesse contezza), rappresenta tra i capitoli più vergognosi di quella Italietta scellerata che si compiaceva di onorificenze e di galloni, di divise paramilitarei (come ora?) agli occhi compiaciuti del regime. Tanto che essa servì per assolvere a quei lavori sporchi a cui più difficilmente avrebbero potuto mettere mano (!) la giustizia e la polizia ufficialmente riconosciuta. Quanto meno perché sarebbero state scoperte, se non per una questione di opportunità.

La Koch si avvalse di delatori e di spie, di attricette e di attori, di chiunque potesse fare da infiltrato. Mi torna in mente il maccartismo, per dire. Ed altre polizie da qualsiasi parte del globo, i racconti dal Cile e dall’Argentina. Gli infami si somigliano dappertutto.

Si avvalse dunque di metodi terribili e disumani per raggiungere gli obiettivi.

Ebbe accesso a registri ed archivi segreti puntualmente forniti da talpe interne a Comuni, associazioni civili ma pure monasteri e Curia; a privati cittadini che nulla sapevano ufficialmente ma a cui non sfuggivano molte cose. A burocrati ed impiegati cui fare riferimento per ricostruire anagrafi dettagliate e spostamenti di fuggiaschi e presunti tali che dovevano avvenire nel segreto.

Siamo al capitolo dell’Italietta brava gente di cui già ieri mi è capitato di dire. Collaborazionisti e gente sciagurata - a volte pure disperata - che era facile da corrompere e che anzi non vedeva l’ora che ciò accadesse. Sperando di ricavarne qualche vantaggio. Fosse solo che si chiudesse un occhio sui propri traffici e su qualche non minima illegalità da passare in archivio.

A tutti consiglio anche solo di lanciare uno sguardo (per questo basta pure Wikipedia, se un libro proprio non si ha voglia e tempo di consultarlo). E come accade oggi per ogni polizia morale, la Koch si prendeva la briga di perseguire e di catturare, di passare alla tortura. Via Tasso a Roma, il primo quartier generale, con sale debitamente adibite ad un trattamento che troverete ovunque perfettamente e brutalmente descritto. Poi in via Principe Amedeo, sempre nella Capitale. Poi Milano e Firenze, capitolo finale, con la cattura di Pietro Koch (fu lui stesso a consegnarsi per liberare e scagionare la sua bella, non avendo più scampo peraltro, né protettori). Il che avvenne un anno dopo, a giugno del 45.

E tutto, dopo aver preso nella rete un buon numero di quelli che saranno le vittime destinate alla ritorsione consumatasi nelle Fosse Ardeatine, lo stato maggiore del Partito d’Azione, intellettuali e partigiani, uomini liberi comunque invisi al regime. Kappler ovviamente lo ebbe come amico. E ci si sarebbe stupiti del contrario, ovviamente.

Tra le maglie della rete tesa dalla banda efferata finì Luchino Visconti, il regista, il quale testimoniò durante il processo contro Pietro Koch e i suoi sodali. Visconti che riprese la scena della di lui esecuzione, nel giugno del 1945, a Forte Bravetta.

 Storie – direi – da non dimenticare.

Al termine del ventennio di regime, si procedette a quella che si chiamò la pacificazione. Persino con un’amnistia voluta ed intitolata a Togliatti.

Il fatto è che se non c’è pace e non può esserci senza giustizia (è quello che tutti ripetiamo in questi giorni di scontro tra russi ed ucraini), lo stesso dovrebbe dirsi della pacificazione interna ad un paese. La pace non avviene attraverso l’oblio né con quintali di polvere nascosti sotto un tappeto …   

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