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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


PERCHE' LA TORRE DI BABELE SAREBBE UN ENIGMA DEMOCRATICO E PLURALISTA

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 22 Gennaio 2018, 18:28pm

Tags: #la storia, #recensioni

PERCHE' LA TORRE DI BABELE SAREBBE UN ENIGMA DEMOCRATICO E PLURALISTA

Lapalissiano, dunque! La globalizzazione del linguaggio è un dato di fatto. Tocca a pochi (le minoranze, anche politiche, se si vuole) mantenere viva la torre di Babele delle centomila lingue e dei milioni di dialetti e dei pensieri autonomi e non centralistici (di contro, il Grande Fratello parla una sola lingua).

Così che, se non fosse per questi pochi e per qualche abborracciato dizionario, dovremmo pensare che queste sacche di diversità scompariranno, a breve. O che in realtà sparite lo siano già, in sostanza.

La lingua del resto se non è praticata, noi diciamo, a torto o a ragione, che è morta.

In Italia, come linea di spartiacque, il termine “a quo” in riferimento al fenomeno, richiamano tutti all’avvento della televisione di Stato, al buon maestro Manzi (buono perché insegnava ad uscire da un analfabetismo globale ed televisivo?). Ma in definitiva, la cosa si sarebbe verificata lo stesso, pur se le enclavi di lingue e di dialetti locali avrebbero resistito (resistono?) ancora a lungo, nei vicoli, nel sottobosco, tra le comunità marginali e montane. Sono marginali d’altronde – secondo questa visione del mondo – quelle comunità che vantano ancora una forma e qualche velleità di autosufficienza e di specificità culturale, purtroppo rivendicata persino in chiave di integrità etnica.  Poi venne il pop della musica. E infine e ancora il web, più che non la circolazione dei testi universitari che sono un privilegio per la sola comunità dei dotti e dei dottorandi (non a caso in passato lo furono in latino: lingua pur sempre bellissima ma ad excludendum). Per altri versi, globalizzata ed anglicizzata è diventata la lingua degli elettrodomestici e in seguito dei computer. Poi della generazione che siamo, per non dire di quella che è ancor dopo di noi.

Cappello introduttivo - banale fin che si vuole (e tanto!) tutto questo – al solo scopo di mettere le mani dentro il mito di quella torre già citata in apertura, quella di Babele che, per inciso, mi è sempre sembrata l’espressione di una grande ingiustizia consumata ai danni dell’uomo, per non dire di un enigma vero e proprio, tutto da re-interpretare.

C’è una deriva ed una pigrizia culturale di fondo, anche esegetica, mi sembra, che vorrebbe spiegare come penalizzate e perseguibili penalmente presso il tribunale di Dio, tutte le attività intellettuali e conoscitive, legate alla conoscenza ed alla curiosità connessa a questa. “Ti basta saper questo!” – sembra rimbombare. O anche “ti basti la mia Grazia”- com’è detto nelle pagine del Nuovo Testamento. Persino a Paolo, la spina non è mai tolta del tutto (di quale spina si trattasse poi, si ipotizza in cento modi differenti), perché “quel che hai, ti basti e tu non monti in superbia”.

La voglia di conoscere, che è un gran bene comune, ci hanno insegnato (male?) pertanto, coinciderebbe e confluirebbe non di rado nell’atto di insuperbirsi. Non che ci nascondiamo come la conoscenza e la cultura tendano fatalmente a spingerci verso l’autosufficienza intellettuale, in cui non di rado Dio (la considerazione del “fattore Dio”) fatica ad entrare, specie se lo si volesse inserire sotto la stessa categoria di approccio e di indagine conoscitiva (ma è anche vero che una cultura ed una conoscenza autosufficienti sono già morte e sono una contraddizione in termini in quanto non esiste cultura se si spegne la volontà di aprirsi al nuovo e ad altro).

Così, alberi della conoscenza del bene e del male etc. popolano l’immaginario del medesimo valore simbolico: c’è, ci deve essere, un limite all’ansia di conoscere. “State contente, umane genti al quia …” - come scrisse Dante.

Non tutto è dato sapere dunque; e non tutto sarà spiegato – d’accordo. Eppure appare legittimo, e umano, (troppo umano, forse?), che lo si desideri e lo si possa persino chiedere in preghiera – dico – “fammi dono della sapienza” – come risuona nei libri dell’AT. Benché, sapiente potrebbe essere anche non chiedere di saper tutto, perché non tutto “cape” (capit, alla latina) entrerebbe nella misura limitata delle nostre facoltà intellettive. Il che, se non è una resa, è un’espressione realistica, forse di umiltà.

Comunque stiano le cose (e temo che stiano un po’ diversamente da come ce le hanno trasmesse), è pur vero che il limite definisce le cose e dà loro un’identità (le categorie e i concetti non sono mai infiniti, benché un concetto di infinitezza esista, almeno per ipotesi).

Ora dall’interpretazione rabbinica, traggo una lettura dei miti di cui si diceva che trovo più soddisfacente, meno penalizzante.

Dio vide questo popolo che si costruiva la sua torre, che parlava una stessa lingua, che si bastava e che non faceva altro se non riconoscersi in sé (l’altro non esiste, in una città in cui tutti sono la stessa gente che dice le stesse cose e parla la stessa lingua, che si produce la sua prigione dorata, che si basta culturalmente ed economicamente); e comprende quindi che questa non è cosa buona (siamo all’indomani della creazione).

Occorre, com’è sempre stato (il mito di Adamo ed Eva in fondo dice la stessa cosa), che ci sia un altro, diverso, un’alterità, uno straniero, uno che parla un’altra lingua, che abbia altri gusti e sensibilità, un’altra cultura, che venga da un altro mondo e da lontano, perché il mondo riconosca la necessità del relazionarsi con un Tu.

Babele, così autoreferenziale e così bastante a sé, ne rappresentava l’esatto contrario. Per questo, Dio ne avrebbe disperso la gente, ne avrebbe confuso lingue e identità: “uomo devi imparare a declinare il pronome tu! Non solo Io, Io, Io”.

Per genesi linguistica peraltro, Io ha la stessa radice di Nulla. Tanto che l’Io, senza un Tu è esattamente niente.

Anche perché, se il mio Io non è pronunciato da altri, è come se non fosse. Un nome non pronunciato da altri, è un nome che non ci rappresenta e che nessuno ci riconosce.

Lo dimostra il fatto che, se fossi chiamato non con il mio nome ma con un altro, quell’altro nome in realtà non soltanto non corrisponderebbe a me, ma neppure ad altri; perché in quell’atto, chi ha pronunciato quest’altro nome, che non è il mio e che non mi appartiene, lo avrebbe erroneamente declinato sulla mia identità, non cogliendo né la mia identità né il mio nome e ciò che esso rappresenta relazionato al mio essere.

Ecco il motivo per cui l’uomo – anche nella Genesi – dà e deve dare un nome alle cose, proprio perché si mette in relazione con esse e al nome corrisponde una identità che per lui è l’espressione di quel nome. Lo fa con gli animali e le piante in primis. Ed è qui infatti che si esprime anche “il suo dominio”  in quanto le definisce cataloga e riconosce. Ne domina quindi la conoscenza, cioè se ne impossessa, la fa sua, cosa che fa con tutto ciò che incontra: persino con Dio, che domina, ma non appieno, in quanto anche con lui si impadronisce di un concetto e di una relativa esperienza (di lui), pronunciando quel nome e quel Tu, pur riconoscendo che di quel nome e di quell’identità molto gli sfugge.

Dio in fin dei conti, in questa ottica, si piega alle categorie linguistiche e di conoscenza dell’uomo, ma non potrebbe mai tollerare di essere solo quella parola detta in quella lingua, schiavo della medesima torre autoreferenziale ed autosufficiente che egli ha inteso distruggere disperdendo la gente della torre di Babele.

C’è di fondo, in ultimo, e questo è bene che venga rimarcato, una visione già universalistica della cultura e della salvezza, non globalizzata, non omologata.

In essa, nella varietà delle lingue e delle espressioni è già questa considerazione per la diversità, per la pluralità dei popoli e per il pluralismo politico e culturale. E questo è già tanto per sostenere che la nostra cultura giudaico-cristiana mai e poi mai potrebbe identificarsi con la xenofobia, con discriminazioni razziali e di genere. Che mai potrebbe asservirsi ad una dittatura, nella misura in cui ogni dittatura mette in atto lo stesso principio condannato nella torre di Babele: l’esclusione di chi non si omologa e la discriminazione di chi non parla la stessa lingua.

Su questa linea pertanto la Torre di Babele non giudica l’uomo nel suo desiderio di fare grandi cose e di conoscerne di nuove, grandi opere di architettura intellettuale, per così dire; ma colpisce coloro i quali costruiscono bunker muri e cittadelle (persino centri commerciali ipermercati et similia), dove si entra e si esce solo parlando la stessa lingua.

In ultimo, potremmo dire che, se il nazionalpopolare (o nazionalsocialismo) di Babele, omologante ed assolutistico, populista, è condannato in quanto uniformante e assolutizzante, in quanto capace di appiattire e di spegnere ogni diversità culturale e linguistica; nondimeno lo sarà ogni lingua e cultura per il popolo autoreferenziale e chiuso, separato, degli iniziati e di ogni intellettualismo che pure si fa Babele, a suo modo: dove tutti parlano alla stessa maniera, senza porsi realmente il problema di capire la lingua altrui e senza esserne peraltro compresi (la cosa non interessa neppure).

La Verità sta sempre nella relazionalità, nella trasmissione e nella comunicazione tra mondi, che è poi sempre lo stesso dilemma.

Che lingua parlerà un mondo non omologato che vuole comunicare un pezzo con l’altro, per farsi capire?

Una lingua comune, cioè un attrezzo in certo modo convenzionale e artificiale (ritorniamo alla lingua delle tv generaliste e delle letterature, allora?). E allora non esiste che uno strumento praticabile: che è quello delle democrazie culturali e linguistiche, rappresentative, e persino un po’ più oltre di un sistema rigidamente proporzionale.

Sarà cioè la lingua del rispetto delle diversità e delle minoranze. Il Dio biblico è sorprendentemente un democratico illuminato. Chissà!

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