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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


Bacigalupo Ballarin Maroso ...

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 4 Maggio 2024, 09:20am

Tags: #la storia

Valerio Bacigalupo (foto Wikipedia)

Valerio Bacigalupo (foto Wikipedia)

Ho ereditato solo dai libri e dalle foto, dai racconti di mio padre infine, la memoria del Grande Torino. Da bambino ho persino pensato che la Ford Gran Torino, l’automobile, avesse preso il nome da quella leggendaria squadra di calcio. Che in fondo, come il Bartali del Tour e come la generale grande voglia di rinascita di questo Paese, quel Toro rappresenta lo stesso simbolo di quello specifico risorgimento italiano dopo i lutti della guerra e degli anni bui del fascismo, responsabile – inutile rimarcarlo – di tutta quella scia di sangue e di memorie non condivise.

A parte la Resistenza e la guerra di liberazione (la prima ancora divisiva a ottant’anni di distanza purtroppo e drammaticamente), furono le istanze repubblicane e poi, molto più modestamente, persino lo sport e la cultura popolare, quella cinematografica ad esempio, a rappresentare bene la memoria condivisa attorno alla quale un paese povero ma bello (!) si sarebbe ricompattato.

Quello che è stato dopo, non sempre all’altezza degli ideali e dei sogni. Ma ci sta.

E quello che sarebbe stato della passione popolare politica e civile è sotto gli occhi di tutti, fino al disincanto di questi giorni. Non sembri eccessivo, ma del resto è lo stesso destino dello sport e del calcio in particolare che di quel valore simbolico e paradigmatico ha perso ogni traccia.

Lasciamo perdere i giocatori “bandiera” e quelli che rappresentano per una vita i colori sociali della stessa squadra. E lasciamo perdere pure quelli che allo sport avrebbero offerto sudore e passione senza arricchirsi e senza diventare stelline da riviste patinate.

Io sono cresciuto quando la metamorfosi stava già realizzandosi. Il tempo delle copertine dei settimanali lucide e roboanti, delle foto dei calciatori appoggiati a immancabili macchine di lusso; o a bordo piscina, negli scenari più esotici del mondo; quelle in vacanza nei posti nei quali alla gente comune neppure era lecito pensare di potere arrivare un giorno; più le mogli paparazzate e bellissime e i primi piani di pettorali e addome già occhieggiavano abbondantemente.

Gli ‘80 del resto sono il tempo della linea di demarcazione tra un prima ed un poi e la commercializzazione, il glamour, l’ostentazione e l’edonismo stupido ad ogni costo, il disimpegno erano la loro filosofia. Anche se agli ‘80 adesso tutti vogliono ridare una verginità che nei fatti non c’è.

Non in Italia, non sul catodico e sulle frequenze delle televisioni commerciali. E neppure nella personalizzazione della politica che andava compiendosi e che dopo “mani pulite” sarebbe scesa in campo, in elicottero, presidenti e calciatori compresi.

Le foto del 1949, di quelle che precedono il 4 maggio e la tragedia di Superga sono altra cosa, seppiate ed ingiallite. Dipende dal tempo e dipende dalla qualità delle foto, del loro sviluppo artigianale. E dipende infine da scenari e contorni che sono poco più che ruspanti, per non dire da quadri dopolavoristici, post-operaistici e periferici, insomma quasi amatoriali, essenziali. Per qualche verso spartani. Cioè sportivi nel modo ingenuo in cui siamo abituati a pensarlo ancora.

Nell’inevitabile cammino dello sport che si fa offerta per tutti, per tutte le tasche e fenomeno sociale di massa, il passaggio dall’austerity alla comfortness è stato un passo. Nessuno avrebbe messo piede del resto in palestra senza spogliatoi ed acqua calda a disposizione, senza solarium e sauna, senza luci e specchi ad hoc, senza personale addetto al custom service.

Quindi quel tempo eroico era finito.

Come quello delle magliette del Casale e della Pro Vercelli, di lana, di flanella, che ciascuno si porta a casa per lavare. Per non dire degli scarpini da gioco, del pallone che era di un cuoio duro che la pioggia rendeva un proiettile persino doloroso da maneggiare, da intercettare.

Gli anni del Toro di Bacigalupo, Ballarin, Maroso, già non era esattamente questa naiveté ma era pur sempre l’espressione di un affamatissimo dopoguerra. I viaggi in aereo che iniziano a trasportare uomini e squadre sono comunque un fatto nuovo. Ed anche un mezzo rischio.

Quelli di Superga in qualche modo ne restavano per questo diffidenti e consapevoli. Bastava un piccolo guasto, un nubifragio, la nebbia, per restare nella memoria di quelli che non li avrebbero mai visti giocare. Per non dire di coloro che a casa non li videro tornare.

Settantacinque anni fa, mio padre era solo un ventenne (ho avuto un padre maturo, evidentemente nda.) e tifava quel Toro. Come a dire che tutti tifavano (o avremmo tifato) per una nuova epica che non fosse quella fascista, bellica e nazionalista. Che tutti avrebbero scommesso sul futuro della giovinezza e dell’entusiasmo di correre e di vivere la vita, d’ora innanzi, liberi, ottimisti, con quella certa leggerezza con cui si corre appresso ad un pallone.

La fama non era il primo degli obiettivi, mentre la fame (anche di ri-vivere) era abbastanza per riempire il motore. Per farlo rullare e decollare.

Poi, si sa, parabola di un Paese, può accadere che la realtà si dimostri crudele. Che si crolli a terra come Icaro, ali e speranze bruciate.   

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