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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


LA VOCAZIONE E' ANCORA UNA COSA DA ADULTI (anche se adulti ci si diventa ...)

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 30 Agosto 2017, 09:10am

Tags: #Vita consacrata

LA VOCAZIONE E' ANCORA UNA COSA DA ADULTI (anche se adulti ci si diventa ...)

Registro con piacere misto a un po’ di preoccupazione, come in questo mese molti abbiano riletto un pezzo inserito in questo blog due anni addietro, ormai: La vocazione è una cosa da adulti. Misteri del web (ma neanche troppo: basta che cominci uno …)!

Non trattandosi però nella fattispecie di un capolavoro letterario (e non era questa l’intenzione né la tempra di chi scriveva); non tutto, non proprio tutto, scriverei e sottoscriverei ancora oggi. Anche se i principi fondamentali a ben vedere non sono cambiati.

C’è questo passaggio che riporto e sul quale ad esempio non c’è stato alcun ripensamento:

Dal momento che di gente come me, miei coetanei ed affini, tanti ne ho incontrati in questi anni, con gli stessi problemi di relazione con l’istituzione e con un po’ di sclerotizzazione del sistema, tanti che si son persi poi ed arresi;

ecco che è nato in me il desiderio grande di voler costruire davvero, se a Dio è gradito, un luogo (?) ed un percorso studiato per gli operai dell’ora ultima, insomma, quelli chiamati un po’ sul tardi, nella propria vita, a cui nondimeno non c’è motivo di chiudere le porte in faccia se Dio (non) vuole.

Sono certo di rispondere ad un’esigenza del nostro tempo che – più il tempo passa – e più mi sembra un desiderio ispirato da Dio stesso, se si vuole credere ai segni.

Non è poco.

Continuo a credere fortemente, facendo memoria di quel che ho veduto ed ho vissuto, di rispondere, io come altri fautori di esperienze affini, ad una esigenza reale del nostro tempo.

Che questo, pur nella mia totale inadeguatezza e rischiando ad ogni modo di sembrare presuntuoso, sia un desiderio ispirato da Dio stesso, se si vuole credere ai segni. Uno di questi, il numero incoraggiante dei miei (?) lettori ed interlocutori; gli incontri nel frattempo avvenuti. Il che mi fa pensare come tutto ciò sia da Dio stesso sostenuto, pur restandone a un tratto sorpreso e spaventato. E direi anche “meno male …”.

Di fronte all’utopia ci sono due strade, d’altronde: che essa imploda e che si polverizzi. O che invece continui ad essere viva e supportata, fino a diventare il dato caratterizzante di una vita. Con l’aiuto di Dio - e davvero - sento di volere e di potere ancora scegliere la via del progetto.

Essere dentro o fuori questa storia, significa credere o non farlo affatto che sia possibile vivere il Vangelo in questa integrale (ma non integralistica) dimensione.

Mentre su di un punto credo di essere personalmente maturato: sul fatto che i modelli, anche i migliori, non si pongono mai a priori. E che semmai si impongono da sé, cioè di fronte ai fatti, agli errori, alle difficoltà. E cioè che si incarnano.

E’ noto a chi mi legge (e a chi mi conosce di persona), che ci sono degli schemi di fondo e di ispirazione in quel che vivo, come un canovaccio, se si vuole.

Nella preghiera si è adottato un canone che potremmo dire sostanzialmente tradizionale (e non tradizionalista), cioè mutuato dall’esperienza cistercense (benedettino) e sempre che si voglia un po’ schematizzare: si tratta degli stessi momenti di preghiera; di orari affini; della stessa sequenza di tempi e salmodia, con letture in genere tratte da uno schema evidentemente monastico.

Così, nella vita e nella scelta di povertà, ci si richiama a quanto sta alla base di ogni forma di monachesimo autentico, fatto di conseguenza di sobrietà, di essenzialità; il che ammonta a tanti precursori. Il nostro cuore batte ad esempio ancora per Francesco, certo, come fu fin da principio (e più ne leggo, più torno ad Assisi e non per diporto, più questo pare scontato), povero di una radicale povertà. E con lui non dimentico l’incontro con la riflessione di altri Padri (una costante restano per me i Padri della Chiesa, specie di Oriente, di quelli che ammontano al primo Monachesimo e poi anche Agostino, compagno fin dai tempi della mia Università, com’è ormai arcinoto).

Siamo figli di tutta questa paternità. E questo resta invariato, anzi oggi mi appare rafforzato.

Col tempo, mi è stato sempre più chiaro che peraltro, per la nostra età e per via delle nostre personalità ed inclinazioni maturate negli anni, il modello dei primi padri del deserto, prima del cenobio di Pacomio, o quello di san Bruno, padre dei Certosini, si sarebbe meglio adattato a quel che siamo e sentiamo, più di ogni cenobitismo stretto.

A ciò, trovo che siamo realisticamente chiamati, cioè ad una condizione di vita “monastica” contraddistinta da una inevitabile, responsabile e relativa autonomia nella gestione della vita quotidiana. Il che non esclude però non pochi momenti e giornate vissuti in comune. E’ semplicemente quello che sperimentiamo e che mi sembra che possa funzionare.

Questo, con l’aiuto di Dio, si può fare.

C’è un aspetto però sul quale ad oggi mi sembra necessario intervenire e chiarire, anche per fornire un ulteriore avviso ai naviganti ed a quelli che per un attimo pensassero di salire a bordo.

Col tempo, la rigidità di qualche posizione è andata smussandosi. Si cresce anche in questo. Riprendo dunque il medesimo passo e lo commentiamo. Si parla ad un tratto di adulti e di professionalità acquisite:

Ma è bene – io trovo – che a costoro sia trovato il modo di dare quel che possono: a chi sa far di conto, di far di conto ancora; a chi di scrivere e di comunicare, dar modo che sia messi in grado di farlo: trovar qualcosa di affine; a chi di occuparsi della gestione del quotidiano, non chiedere di cancellare il patrimonio di una vita.

Sono certo che nella parabola dei talenti è questo che venga inteso, anche di fronte a scelte radicali: son pescatori quelli che si faranno pescatori di uomini; e Paolo, per vivere continuò ad esercitare per del tempo il suo lavoro di tappezziere.

Insomma, questo significa aver cura e attenzione per le risorse umane che Dio mette a disposizione. A nessuno va chiesto – specie in questa fase della vita – di stravolgere la propria personalità; di fare se non eccezionalmente ciò per cui non è tagliato e per cui evidentemente non è stato mai chiamato.

Ecco, su questa cosa non mi sento più tanto sicuro e lo affermo ad alta voce. E’ vera in parte, cioè.

E’ possibile – chiarisco - che quel che già siamo, debba o possa essere valorizzato. Eppure a volte non è proprio così che funziona. Talora, almeno in parte, ci può essere chiesto di fare dell’altro, almeno in parte intendo. E che tanto non può scandalizzare.

Ci vien chiesto di occuparci di quello che potrebbe apparire dozzinale e vile: pulire e lucidare, per semplificare: far la spesa e controllare quel che manca in casa; pagare le bollette e fare da cucinieri e da infermieri; di fare un po’ dell’altro, dunque, non solo l’intellettuale disincarnato, con la puzza al naso.

Insomma, va così.

Ed è la vita che va così, per tutti ed ovunque. Non ci si può nascondere: “io a queste cose non mi abbasso”. Forse è stato anche un mio errore del passato.

Direi pertanto adesso che senz’altro è auspicabile che nulla di quel che siamo ed abbiamo, vada sprecato, ma che in fondo anche far dell’altro, se occorre (e occorre sempre), può divenire occasione per scoprire altro in sé, un passo alla volta. Crescere in questa maniera, e sotto molti punti di vista: ad esempio nella disponibilità (altri direbbero “umiltà”).

Quello che vado scoprendo a poco a poco è che a mettere troppi paletti si finisce per restarne prigionieri e non consentire che la Grazia ci sorprenda.

Mi colpisce sempre di “quel Simone” a cui, nel momento in cui in Gesù afferma di aver riconosciuto il Cristo, viene cambiata la vita ed anche il nome: Cefa. Che è lo stesso principio per cui i monaci da secoli possono (o debbono) cambiare il proprio, al momento della consacrazione. Cambiarlo, perché sei un uomo nuovo a cui può esser chiesto anche di lasciare qualcosa per abbracciare tutto il resto.

E’ questo che ora mi è più chiaro.

E’ che si fa così fatica ad essere liberi da quel che siamo stati o da ciò a cui vogliamo restare abbarbicati. E a me sembra una grande conquista, un grande dono prenderne un poco le distanze. Ora sì, che si può riprendere il cammino, fermo restando che in ogni vocazione è sempre essenziale metterne a fuoco la specificità, perché ciascuno sia messo in grado di dare il meglio di sé, anche quello che non conosceva, pazientando talora, e persino un po’ soffrendo, perché questo è il processo di ogni crisalide che aspiri a diventare una farfalla, pure se bruttina.

Ps. Forse quello che è cambiato in me è la percezione che ho dell’essere adulti. Adulti non si smette mai di diventarlo. Sclerotici invece è come una deriva naturale. Che va frenata. O no?

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