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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


MIKAL - LA PUZZA AL NASO

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 20 Luglio 2017, 10:25am

Tags: #recensioni

MIKAL - LA PUZZA AL NASO

Dal secondo libro di Samuele: Mentre l’arca del Signore entrava nella città di Davide, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo [….] “Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!”.

Davide le risponde, annunciandole che quei servi e quelle serve gli avrebbero presto obbedito. E che presso di loro sarebbe stato onorato: “Anzi, mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma ….”. Mikal sarà condannata all’infelicità e alla sterilità.

Non c’è molto da aggiungere all’idea che ne trapela, radicata (un pregiudizio), di una sterilità intesa come segno di incompiutezza e pertanto fonte d’infelicità, in una società peraltro arcaica, la cui cultura, alla donna non sa prospettare nulla di più grande della gioia della maternità. Non che gioia non sia …

In civiltà del genere però, che tendono indubbiamente a prevalere sui vicini per sopravvivere (“non più piccolo numero”); generare e mettere al mondo è un’assicurazione sulle proprie forze in campo e sulle probabilità di garantirsi la propria sopravvivenza.

Verrebbe da dire che è esattamente a partire da quest’ottica visuale che anche oggi si sostiene, e si combatte con molta demagogia e quindi anche “pericolosamente”, che ogni civiltà che conoscesse una denatalità tendenziale, debba considerare a causa di ciò pregiudicato il suo stesso avvenire, una vera iattura. Molti ne sono gli assertori e molti purtroppo anche i demagoghi populisti e opportunisti.

Perché viene da sé che tutto ciò può risultare di suo, parte integrante, quanto meno presupposto, di quell’idea pericolosa assai che sia un dovere mantenere e alimentare ad ogni costo, con politiche mirate, l’integrità della razza, quasi si trattasse di un sacro dovere. Quasi si volesse mantenere in vita la specie, che si tutela da sé, questione però di cui già discutevamo giorni fa.

Detto ciò, molto più significativo è però quello sguardo sprezzante di Mikal che guarda dalla finestra, standosene fuori, e dall’alto.

Il disprezzo non produrrebbe che il nulla: questo si intende. Solo aria e parole che bruciano e inaridiscono.

Il giudizio non riguarda quindi neppure Mikal in sé e per sé, ma attiene al pregiudizio di chi si tiene fuori sì, in ogni caso, che guarda alla giusta distanza e per così dire, dall’alto. Ella non partecipa alla festa, è vero. Non comprende il motivo soprattutto di quel saltare e danzare seminudi.

Non bisogna nascondersi la problematicità che deriva da questo tipo di considerazioni.

In ogni caso direi, il sussiego provato da alcuni nei confronti della devozione popolare costituisce un motivo costante nella storia delle religioni giudaico-cristiane dal momento che si sono sempre più evolute verso varie forme di riflessione esegetiche teologiche e filosofiche, colte. E’ quel che accade quando l’elaborazione culturale fa diventare il fatto religioso anche un evento di rielaborazione dotta.

Affrontando del resto più volte la questione della religiosità popolare, a volte paganeggiante, specie in relazione alla religiosità del Medioevo (ricordo ancora lo studio di Manselli per Il Mulino, di cui scrivevamo mesi addietro), un doppio binario della fede e della devozione appare innegabile.

Non condividerne (partecipare) le espressioni più semplici è un atto di superbia come prenderne le distanze? Non saprei dire quale sia la linea di demarcazione per questo approccio. Di sicuro, di fronte alla religiosità popolare ed alle sue manifestazioni, la chiave di lettura non potrà mai essere sotto il segno dell’altezzosità di Mikal – si dovrebbe concludere. Forse che il fariseo non disprezza il pubblicano dicendosi “Dio ti ringrazio di non essere come costui”, cioè prendendone le distanze?

E del resto i riti esatti del fariseo in questione, non sono forse perfetti, secondo tradizione radicata, allo stesso modo in cui lo sono i riti perpetuati di generazione in generazione, per tradizione divenuta popolare, comprese tutte le abitudini e le pratiche della gente comune, direi anche magiche e paganeggianti?

Né meno tradizionali e immutabili del resto possono diventare del resto le chiavi di lettura teologiche ed esegetiche, le scuole filosofiche le accademie e le Scolastiche quando si cristallizzano di fronte alla novità. Come porcisi di fronte, dunque?

Ora, basterà ripensare a quella devozionalità che appena ieri l’altro richiamavamo su queste pagine nel caso delle feste patronali, di molte di quelle mariane (anche quella di Davide, con l’arca, è una processione con tanto di suoni e canti e danze suminudo).

Sarà forse la nudità di Davide allora, il motivo dello scandalo, cioè farsi vedere, mostrarsi scoperto, da servi e serve? E perché ciò fa specie? Perché – temo – la nudità rimette a posto le cose: gli uomini son tutti uguali di fronte a Dio, nel loro costume adamitico sono uguali re e servi. Perché i nudi non temono di mostrare sentimenti e istintualità, modi espressivi persino infantili, animaleschi (un po’), plebei, come nella notte di mezza estate shakespeariana.

Venute meno dunque le vesti curiali e quelle regali (vedi il denudarsi di Francesco e il coprirsi di pelli di Giovanni), l’uomo è uguale dappertutto, umori odori e pelurie varie; anche se sarà un grave affronto (AT) mostrare la nudità di qualcuno, del padre ad esempio.

La verità è che è dunque il porsi nell’atteggiamento del giudice severo e inflessibile, come Mikal, posto sul trono del suo davanzale del cielo da cui scruta e giudica ogni cosa, che fa perdere all’uomo la sua dimensione. Chi sei tu per giudicare quella gente? Così non partono le pietre contro gli adulteri. Così non giudicherai la Legge. Così non giudicherai senza appello quello che ti deve qualcosa, visto quanto ti è stato condonato. Così quel che il salmo ripete all’infinito: Che cosa può farmi un essere di carne? In teoria, nulla …

In realtà gli esseri di carne possono fare moltissimo. Possono giudicare e condannare, mandare a morte, farti scendere dagli abissi e farti risalire. Anche se questo non andrebbe loro concesso impunemente. Fino a che sia esaurito il settanta volte sette grado di giudizio, cioè molto più della Cassazione.

In realtà sull’uscio, alla finestra, su cui si attende; o sulla riva del fiume, per vendicarsi e per veder passare il cadavere del nemico, ci si pone eccome. E la vendetta, anche se spesso posta nelle mani di Dio, a lui affidata, nell’AT, come la legge del taglione, in questo ambito non è neppure da considerarsi peccato.

Ben altro il perdonare perché non sanno quel che fanno della sezione aggiunta della Bibbia.

Allora, i tanti Mikal sterili del mondo e della storia, non sono che quelli che coltivano nel cuore il pregiudizio e l’incomprensione e che separano da sempre il mondo tra pecore e capri. Li vedono sfilare, non ne sfiorano neppure il vello, come Polifemo con il suo gregge; e molti li avviano all’ammazzatoio. Mentre fan festa a proprio modo quelli là, fin che gli è consentito, suonando cetre e cembali sonori, cembali squillanti, uno spettacolo che sembra Dioniso, ma che non manca di buona fede. Il bel Davide fulvo che vedi nelle statue, quello degli scultori, è spesso quello mezzo nudo del II di Samuele. Di Mikal non resta che quello sguardo immaginato con un palmo di naso. Naturalmente arricciato.

Il rischio di noialtri intellettuali – di chi presume di esser tale, come me – è che vi si resti per tutta la vita con quell’espressione schifiltosa, come per una irriducibile paresi; per “enunctae naris” come dicevano i latini, cioè con la puzza sotto il naso.

E non è proprio un bel vedere.

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