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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


BENEDETTO E L'UGUAGLIANZA DELLA REGOLA SECONDO IL BISOGNO

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 31 Maggio 2017, 10:40am

Tags: #Vita consacrata, #recensioni

BENEDETTO E L'UGUAGLIANZA DELLA REGOLA SECONDO IL BISOGNO

“Si provveda a ciascuno secondo il suo bisogno”, Dividebatur singulis prout cuique opus erat (Atti 4,35). Con questo non intendiamo che si facciano differenze di persone – non sia mai! – ma che si usi riguardo alle infermità: e così chi può fare con meno, ringrazi Dio e non si crucci; chi ha più bisogno, consideri il proprio stato di bisogno e non s’inorgoglisca: e così tutte le membra saranno in pace. (dal Capitolo XXXIV della Regola di san Benedetto).

A quante riflessioni e conclusioni condurrebbero queste parole …

In primis. Anche sere fa mi è capitato di sentir parlare – neppure saprei dire dove, in radio? - di questo sorta di comunismo in atto nella vita delle comunità dei primi cristiani.

Indubbiamente per loro (per noi no?) l’indigenza di qualcuno costituiva un motivo di scandalo di fronte all’arricchimento di altri, anche se il criterio era ristretto ai soli membri della fraternità. E questo è forse un limite , direi, non esattamente settario, ma insomma …

Ora, se il comunismo somiglia comunque all’idea di essere una comunità di persone solidali e all’idea stessa della comunione e della condivisione (ma “se qualcuno non vuole lavorare neppure mangi” – si dice pure altrove), allora di comunismo ante litteram si può a ragione parlare.

Applicato alla vita di una comunità, ad un gruppo di persone che vive secondo il dettato evangelico (ce ne sarà pure uno, di massima …); applicato a dei monaci delle monache, delle religiose, il principio genera la necessità di ridurre le pretese di ciascuno e nondimeno di pensare ad ogni cosa come bene comune.

Nel capitolo precedente, Benedetto o chi per lui, scrive “nessuno pensi o parli di qualche cosa come sua”, anche questo adattandolo dallo stesso passo degli Atti di cui sopra indicavamo la citazione.

Senza voler toccare i massimi sistemi, anche perché non ne conosco, direi che la tendenza ad accumulare, a mettere da parte, è innata. Come lo è l’elogio comune un po’ proto-borghese della formica (in fondo persino le vergini dei vangeli si procurano l’olio che serve ad aspettare che arrivi lo sposo. Di contro però, c’è una vedova che mette a disposizione dello sconosciuto persino le ultime croste e l’ultimo orcio d’olio che possiede. La verità sta nel “giusto” mezzo?).

Così come’è vero – da qui, è questo che si vorrebbe pertanto sostenere – che non tutto quel ch’è innato (o forse non lo è. Magari si tratta solo di un dato culturale, acquisito) è di per sé da salvaguardare. Semmai da valutare e da educare.

Il senso del possesso attiene alla nostra natura, senza meno. Come il senso della condivisione attiene in qualche modo al branco, dove però al più debole in genere spettano le briciole (è costretto a mangiare per ultimo, ad esempio, come infatti viene raccomandato di insegnare persino ai nostri animali da compagnia).

Ora, se l’uomo si accompagna a qualcosa che sia più di un branco e delle sue regole (ma sembra che il branco vinca sempre comunemente e non solo in età adolescenziale), al più debole, l’infermo di cui si legge nella Regola, non spetta appena l’ultimo boccone, ma qualche pietanza in più.

Ed a questo principio dovrebbe essere ispirata anche una società moderna, più umana, solidale, lo Stato sociale, e persino il principio del welfare.

Lo Stato (non lo Stato etico hegeliano) dovrebbe prendersi cura di chi ha più bisogno, per concludere. La vita di comunità e di comunione dovrebbe ispirarsi al medesimo principio.

Aggiungo di poi che, se la cosa è raccomandata con tanta forza in queste pagine di cristianesimo applicato e non solo in esse, ciò va ascritto al fatto che molto meno innato è allora prendersi cura, in questo animale da branco che è l’uomo homo homini lupus.

E che infine, nella pratica, molti erano/sono, anche nelle comunità monastiche, per non dire altrove, gli episodi di sopraffazione, di accumulo, di arricchimento personale, di vessazione dei deboli, degli incapaci, dei vecchi, degli analfabeti, dei servi della gleba, dei fratelli laici persino, come si può leggere nella storia di molte congregazioni.

I riformatori infatti – ne leggo di qualcuno, per lavoro, in questi giorni – devono agire con fermezza proprio sulla rinnovata centralità del voto di povertà (e di condivisione dei beni comuni …) che tutti del resto hanno pronunciato al momento della loro professione.

Non entro nel merito ma, com’è noto, dato che molti istituti accoglievano monache (e monaci) di Monza di ogni tipo, con nessuna vocazione molti capricci vezzi e beni, è ovvio attendersi che ad un tratto “qualcuno che ci crede” si svegli, apra gli occhi, consideri l’andazzo e si metta al lavoro per ricordare che la ricchezza è un bene comune, per quanto doloroso e contro natura esso possa essere ed apparire.

Ecco perché – mi dico sempre e lo ricordo a coloro con cui mi trovo ad interagire e a confrontarmi – non è semplice compiere il grande passo della vita comune. Neppure volendoci riferire al matrimonio ed alla convivenza, intendo. E ciò non ha alcun bisogno di essere ancora approfondito e rimarcato.

C’è un’altra riflessione però a cui mi muove la regola da cui siamo partiti.

C’è un’idea di giustizia, in essa, per quanto possa sembrare scontata, che applicata singulis e per categorie di persone, appare per quello che è: la regola e la giustizia per essere tali non possono essere irrealistiche e disumane.

Il più bisognoso deve essere in certo modo sostenuto. Questa è giustizia.

Tornando all’idea che mi spinse ad intraprendere questo cammino (Simeone etc …), a favore delle vocazioni adulte, qualunque essa sia, era questo il principio che mi sembrava chiaro. E giusto.

Ad un uomo che ha più difficoltà ad aderire ad un modello rigido (parlo di formazione di istruzione, di iter di ogni tipo), ed ha anche altre qualità e competenze, per via della sua età, della sua storia, perché già strutturato, formato, umanamente e professionalmente, va riconosciuto non solo uno status differente (non esattamente di infirmitas – sia ben chiaro!); quindi anche una condizione di “bisogno” diversa. Va preso atto della sua diversità.

E quindi direi dei beni (o dei bonus) in più, di un’attenzione, una cura, delle formule che lo aiutino a vivere quel che si è determinato a vivere. O che è chiamato a fare, se vogliamo essere più aerei.

Una giustizia uniforme, conformistica ed assolutizzante lo farebbe morire o scappare. E’ quel che avviene.

Una giustizia intelligente, benedettina in tal caso, lo renderebbe gioiosamente partecipe, persino “assimilabile”, guadagnato.

Quando dovessimo ritrovare (vale per la vita religiosa, monastica, ma anche civile) regole e principi, applicazioni uniformi – diremmo tranquillamente “standard” -  dobbiamo avere la consapevolezza – senza alimentare sensi di colpa, che ci troviamo di fronte ad uno “Stato”, ad una “istituzione”, per laica o religiosa che sia, che non applica un criterio di giustizia, ma un criterio tristemente disumano e disumanizzante, ottuso.

Il che potrebbe dirsi pure in termini culturali, di annuncio, di quel che si vuol dire (pastorale?).

A ciascuno va offerto secondo la sua condizione.

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