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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


UT UNUM SINT: IL MITO DELL'UNITA' DALL'EVANGELO FINO AL LUOGO COMUNE

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 1 Giugno 2017, 11:26am

Tags: #unica

UT UNUM SINT: IL MITO DELL'UNITA' DALL'EVANGELO FINO AL LUOGO COMUNE

Quando si invoca il richiamo all’unità – la cosa è sempre più diffusa in politica, ad esempio, dove la frantumazione e la divisione sono sempre più una costante e sono quasi sempre una iattura; ma oggi, con “spirito di squadra” vi si fa ricorso tanto in azienda come nello sport, naturalmente – il rischio di scadere nella facile retorica sta quasi sempre dietro l’angolo.

Perché nella generalità dei casi si invoca un’unità apparente e formale, che non lasci emergere divisioni interne o solo differenze; e che mantenga inalterati numeri ed apparenti obiettivi comuni.

Se ne parla oggi pur parlando di Europa, per dire, o di unità/identità comune del mondo occidentale etc … formalmente quindi uniti sui valori, sul minimo comune denominatore e insomma su quei principi condivisibili (sono sempre meno insomma quelli che, anche in ambito ecclesiastico, si chiamano da qualche tempo “valori non negoziabili”).

L’unità sostanziale, letteralmente, non è questa.

E, quell’unità che tiene compatte le forze politiche le maggioranze, le squadre, i numeri; quella che non lascia trapelare le divisioni e i punti deboli, attaccabili, quelli che potrebbero essere aggrediti dall’esterno, somiglia molto – mi sia consentito - alla mentalità borghese ed un po’ ipocrita che già i grandi scrittori tra otto e novecento hanno descritto nei loro romanzi e anche nei film d’autore (mi vengono in mente così, alla rinfusa, dalla Karenina alla Madame Bovary, dai Buddenbrook, alle saghe familiari come quelle dei Forsythe, ai romanzi di Moravia del nostro Novecento, fino a certi film di Scola).

Che unità è dunque mai questa? Essa è (purtroppo) quella – ahimè – che spesso ha tenuto apparentemente unite le famiglie, mariti mogli figli e amanti, figli fuori dal matrimonio etc …

Per molti è stato un collante sociale.

Per altri una grossa finzione e una fonte di enormi sofferenze frustrazioni e schizofrenie individuali e collettive. I capitani d’industria locali e non, sul modello ritratto ne La califfa di Bevilacqua, ne sono una fotografia ed un esempio lampante. Persino le canzoni popolari. Chi non ricorda la storica “filanda” interpretata da Milva?

Anche l’unità delle Chiese, di più, di una comunità religiosa e non – penso persino a certe (non tutte!) rimpatriate tra compagni di scuola e di squadra che non si sono mai amati (Verdone) – o a tutte quelle finzioni, interpretazioni edulcorate che non reggono alla luce della verità storica e della verità dei cuori.

Credo che se ne debba convenire.

Essi non sono una cosa sola.

O forse lo sono solo nella misura in cui in questa unione numerica e collettiva (ri-unione – persino in musica è oggi di tendenza la reunion) ammettiamo la presenza (ricomposta?) di contrasti e divisioni, di differenze divergenze e talora persino di risentimenti e rancori.

Quell’unità che oggi diremmo magmatica o dialettica, ad ogni modo, non risponde appieno all’unione comunione dell’immaginario collettivo, che almeno del risentimento e del rancore deve fare necessariamente a meno per essere tale.

Ora, se è vero che un regno diviso al suo interno – come sottolinea il Cristo in persona accusato di guarire nel nome di Belzebù – è debole ed è facilmente vinto; è anche vero che il suo auspicio finale (Vangelo Giovanni) è che “ut unum sint”: che siano una cosa sola.

Molto si potrebbe discutere sul fatto che si sia una cosa sola, ciascuno di noi lo con sé stesso innanzitutto, nel coacervo di contraddizioni che albergano contemporaneamente nel nostro cuore, con pulsioni e spinte opposte. E che quindi siamo insieme il sommo bene e il più profondo male, la bontà e la generosità, l’amore di giustizia e l’indifferenza, il cinismo (“Non me ne importa niente di niente” – canta oggi il tormentone della nouvelle vague, Levante). O che lo stesso potrebbe dirsi di chiese e comunità, gruppi comitive e partiti.

Però va detto che alla lunga le tensioni e le contraddizioni, checché se ne dica, logorano spaccano e mandano in frantumi, in una vera diaspora, i componenti originari.

In teoria lo stesso accade al singolo, allorquando le sue proprie contraddizioni sono così forti da spedirlo al manicomio, cioè alla confusione.

Il salmo 118, lunghissimo, ben commentato dal vescovo, Padre della Chiesa, Ambrogio, recita “Odio chi ha il cuore diviso”.

E chi è che non ce l’ha?

Se così non fosse, nessuno avrebbe detto che, pur vedendo il bene, sceglie inevitabilmente e misteriosamente - non troppo invero … - il male. Perché il male e il cuore diviso hanno il loro fascino. Siamo tutto ed il contrario di tutto. Come tutti, o quasi. Liquidi come direbbe Bauman.

Ora, le cose incontrate e lette in questi giorni (Regole e passi evangelici e commenti e così andando) mi dicono che di questa unità, non formale, occorre dire: e non solo per le scelte di vita che uno dovesse aver compiuto.

L’unità dei monaci ad esempio è la stessa che si richiede (?), che si auspicherebbe per ciascun uomo.

Che è unità interiore ed esteriore, non forzata, altrimenti non è più com-unione ma è coazione.

E però il monaco – com’è ben detto da più parti – non è solo essere monos, solitario, uno ed uno solo, ma è anche unus, una cosa sola, con sé stesso, con gli altri e pure con Dio.

Dell’essere una cosa sola con sé stessi – a meno che non si voglia dire di bipolarità estrema – mi pare cosa ovvio e già accennata: se non sei uno con te, vivi la schizofrenia dell’indecisione, della fluttuazione (Benedetto nella regola parla spesso dei fluctuantes, una costante).

Oggi sei a mille, domani sottozero.

E così le tue scelte sottoposte quotidianamente a continua revisione, superficiale peraltro e quasi sempre impulsiva o compulsiva, si potrebbe concludere. Diciamo che la società che viviamo vive di questa compulsione perché non ama andare a fondo; non le si dà tempo e modo di farlo. Solo un’analisi sincera ed applicata di sé, può produrre un’immagine realistica di quel che siamo e quindi ricomporre (?) attorno a qualche elemento fondamentale l’unità personale ed individuale che siamo.

Molto più pericolosa e malmostosa mi sembra invece la riflessione sull’unità da intendersi con gli altri, che spesso – direbbe Sartre – rischiano di essere l’inferno. Che sono famiglia, correligionari, comunità, compagni di partito e quel che sia.

L’unità – come qui vien detto e come sostengo da tempo (mi si consenta l’autocelebrazione) - non è una recita a soggetto e non esige neppure una vistosa manifestazione di affetto e di cameratismo. Non siamo uniti perché ci diamo la pacca sulla spalla e perché ci scambiamo il gesto della pace. E’ palese.

Quella è una vecchia commediola in cui dietro la schiena spesso si celano lunghi coltelli e taglientissimi stiletti.

L’unità – direbbe lo sportivo – è la consapevolezza di remare nella medesima direzione. Perché abbiamo gli stessi obiettivi? Forse.

E l’obiettivo comune – se c’è – “il goal”, come dicono gli inglesi imprestandolo al pallone – è quello di remare in sincronia a favore della qualità della vita, del suo valore e quindi del benessere potenziale dell’uomo.

La nostra unione si misura nel nostro vivere tenendo a cuore, ciascuno a suo modo, con le proprie armi e con il proprio modus operandi, l’unità/integrità di ciascun uomo, come un bene prezioso.

Le mie azioni (ed orazioni), direi kantianamente, dovrebbero essere fatte in modo che farei per chiunque quello che vorrei fosse fatto a me, come se credessi perfino all’intima bontà dell’uomo, al fatto che ad essa si possa approdare e contribuire: che ci si può lavorare. Che credo quindi nella pace. Stare in pace è operare in tal senso.

Che l’obiettivo dell’uomo è costruire dunque una pace: con sé, poi con gli altri, con una dimensione spirituale e in ogni caso verticale.

L’unità è sempre nel nome del rispetto, che è a mio avviso il più vicino dei sinonimi del termine amore.

Ci si sente uno, solo con chi si rispetta. Gli altri sono sempre “altri”, quindi l’eccezione. E l’eccezione in genere si marginalizza in una nota a pie’ pagina specifica. Essi sono sempre una seccatura e, se si può, l’eccezione la si tiene fuori: dalla regola generale appunto.

E’, un po’ detta in centoni, la dinamica che sottende oggi la questione contemporanea “esclusione o inclusione”.

Ma se l’eccezione però è sempre ad excludendum, l’unità non per questo è semplice inclusione. E’ molto di più.

Voglio dire che non è omologazione, non è accoglienza tout court e carità paternalistica e pelosa. Non è massificazione.

Non ha come obiettivo finale la spersonalizzazione, la globalizzazione. L’unità potrebbe essere semmai la considerazione di un corpo in cui ogni cosa adempie a differenti funzioni, come nelle immagini paoline.

Il tutto dalla considerazione che sì, siamo persino sulla stessa barca, creature difettose e schizofreniche, in crisi d’identità e di panico costante. Chi sono io?

Dopotutto è la domanda che ci accompagna tutti per tutta la vita, di fronte ad ogni nostra contraddizione.

E’ questo il primo dato comune: homo sum.

Puntiamo ad essere unus e rischiamo solo di restare monos, soli.

 

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