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la voce di simeone

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cultura e spiritualità


pazienti come numeri mai più - analogie con gli anni '80 e un altro virus usato a mo' di marchio

Pubblicato da Enzo Maria Cilento - fratel Simeone su 29 Febbraio 2020, 16:26pm

Tags: #unica

edmund white - scrittore e critico letterario

edmund white - scrittore e critico letterario

Si potrebbe facilmente obiettare che non è paragonabile e neppure pertinente, ma l’atmosfera che stiamo respirando (verbo pericolosissimo, di questi tempi) me ne ricorda un’altra che ho la “ventura” di ricordare appena. E che in molti casi ho trovato fedelmente riprodotta in molta letteratura relativamente recente.

Quando negli anni 80 (per questo metto in guardia dal fatto di mettere strettamente in relazione le due cose, se non negli effetti sociologici, per così dire) cominciò ad esplodere la notizia delle prime infezioni da HIV, nella comunità gay in modo particolare – in Italia significativamente più tardi che altrove – si visse la stessa sensazione di paura che, fatte le debite proporzioni, stiamo vivendo oggi.

Con il terrore di essere contagiati e di finirne vittime, reazione a cui presto avrebbe fatto seguito una sorta di psicosi e poi di rassegnazione “sarà quel che deve essere”.

Con la differenza sostanziale che il numero degli ammalati e dei decessi in quella fase fu altissima, esponenziale.

Se ne contarono centinaia di migliaia e ricordo ancora le coperte lavorate a patchwork, cioè un pezzo cucito con l’altro, su ciascuno dei quali era riportato il nome di una di quelle vittime che in quel modo venivano ricordate.

Si colpevolizzò e si demonizzò una categoria di persone (omosessuali, promiscui e tossicodipendenti). Si diede atto ad un ulteriore isolamento e a un’altra discriminazione, come se altre non fossero già bastate in passato. E si arrivò a dire che se l’erano cercata. Che l’ira di Dio su di loro, si era a ragione abbattuta.

Fu uno spettacolo penoso ed imperdonabile di inciviltà.

Ricordo nei locali – sul finire degli anni 80 – la paura diffusa, il silenzio sul tema per esorcizzarlo o, di contro, la conta di chi c’era ancora e di chi non c’era più. Molti smagriti, impauriti, macilenti, evidentemente sofferenti. Ma con la voglia di vivere, fino alla fine.

Mentre accanto a tutto ciò si facevano i conti con i nomi più o meno celebri coinvolti loro malgrado nella mattanza.

Per chi ne avesse lo stomaco, basterà leggersi Leavitt o Edmund White, tra gli altri, per saperne di più. Per quelli che non c’erano, dico.

Non siamo a questo, per fortuna.

Ma se vedo le mani che stentano a toccarsi, come ieri in una chiesa, esitanti, incerte, solo per scambiarsi un segno di pace (ho visto chi si rifiutava, legittimamente peraltro, negandosi e sottraendosi facendo no col gesto della mano); se qualcuno, rivedendomi, mi chiede se può salutarmi come sempre, affettuosamente. E a questo aggiungo poi la criminalizzazione di questa o di quell’altra comunità, di una regione d’Italia, il maledetto “focolaio”, non posso fare a meno di tornare così indietro con i ricordi, come sto facendo ora.

E non mi piace.

E’ che di fronte a cose che si assomigliano, gli uomini sembrano reagire con atteggiamenti che assomigliano ad altri tenuti in passato. Il che dimostra che non si cambia, non molto, dentro.

Che la paura è umanissima ed è crudele, è istinto di sopravvivenza ed è irrazionale, il più delle volte.

Che ha bisogno del nemico e dell’untore da individuare, per salvarsi la vita.

Ci si infetta, ci si cura, si guarisce mentre resta il segno di essere stati additati a vita, per molti. Mi colpiva la rabbia di una donna guarita, ieri. Risentimento per quelli che li chiamano paziente 1 e 2 e numeri. Persone invece, solo persone.

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