Forse la vita è solo (anche) una questione di punteggiatura. Eliminala del tutto (non parlo solo dell’usarla in malo modo) – e ad eliminarla hanno già pensato poeti e scuole di poeti (ci vuol tanto per fare scuola?) - e ti toglierà persino il respiro, oltre che il senso.
Così che l’unico senso residuo sarà quello di una emissione di parole come una fucilata, come una raffica, come l’igiene del mondo e come il rombo del motore. E al posto delle pause e di quello che vi è dentro, solo una questione di ottani.
Che poi di questi tempi la raffica delle parole (e del non senso) sia prevalente è fuori discussione. Informazione che non dà respiro, il che sta dietro un uso ideologico e strategico della cosa: l’ansia paga anche nelle news e non ti fa dormire: “Chissà domani, se alzandomi, lo stesso speaker, a prima mattina, non mi rassicuri sui timori che mi ha trasmesso la sera prima!”
E allo stesso modo con il ragazzo delle vendite al telefono e di quelle in televisione che non ti consentono di replicare: la tv parla da sola in casa e non le puoi rispondere se non vuoi rischiare che qualcuno ti consigli di essere internato.
Così il linguaggio della rete e quello del tuo tablet e del tuo cellulare. Ah, la vita che non dà respiro! Che non ammette repliche né parole. Non le tue.
E la letteratura – per non dire del piacere con pause della lettura, della poesia e del teatro, anche della preghiera e della riflessione, della meditazione – ti sembra piena di buchi e di vuoti, lenta come un pachiderma, antica, superata dal rombo del tuo cuore motore in subbuglio ed in ebollizione.
A qualcuno nondimeno venne nel frattempo in mente l’elogio della lentezza e non a caso.
Ma non è di lentezza che voglio parlare e neppure di letteratura, neppure di nostalgia “dei bei tempi andati”, che tanto belli non sono mai stati.
Non si tratta di lentezza dunque, ma di respiro.
Ho così difficoltà a volte, quando ne ho insegnato l’uso ai miei allievi, tra rilassamento e teatro, emissione di voce, insegnare a pregare. “Cos’è tutto questo spazio e questo respiro, profondo, e questo andarsela a prendere in fondo alla pancia, nell’anima e nelle viscere, quel po’ d’aria?” – mi interrogano attoniti.
Il fatto è che, senza punteggiatura e senza segni d’interpunzione, non si può vivere e non ci si esprime, non per intero.
O forse solo non si riesce a farsi capire, perché è anche questo che sarebbe bene che ci venisse chiesto e che ci fosse chiaro, se parlare non fosse ormai, come vivere e respirare, solo vomitare e rovesciare addosso ad altri, il primo incontrato, quel che abbiamo dentro e in superficie, senza neppure desiderare una risposta; solo come un conato per cui dobbiamo liberarci del tappo che abbiamo tra l’esofago e la trachea.
E invece bisogna saper mettere virgole e punti con la virgole, punti soprattutto: in tutte le cose.
Saper dire “fin qui”, e saper chiudere un periodo, anche fuor di metafora, se non si vuole scoppiare.
Vale persino e soprattutto per un dolore da metabolizzare, un risentimento ed un rancore, un dispiacere: punto! Persino per un piacere.
E naturalmente anche a capo, se è il caso.
Perché il capoverso significa un altro discorso, chiuso il primo. E anche talora la fine di un capitolo, di un racconto, per un altro episodio, magari cambiando pure il protagonista. Perché no?
La vita è una questione di punteggiatura: anche la vita dello spirito o forse quella soprattutto. L’altra non è.
C’è vita senza spirito, e lo spirito non è forse simile all’aria ed al respiro? Ma noi non gli diamo tregua e lo soffochiamo.
Un po’ come con i sentimenti e le domande (i punti interrogativi) e gli stupori (quelli dell’esclamazione).
Abbiamo preso di contro l’abitudine di metterne a iosa, a dirla tutta, nei nostri messaggi, di inserirne e due e tre (??? !!!!) o di metterli insieme (!?!) con varie combinazioni; perché le reazioni, quelle subitanee ed improvvise, sono sempre un po’ una cosa e un po’ un’altra ancora. Giusto!
Come Totò, cinquant’anni dopo, “è sempre meglio abbondare” con la punteggiatura, non sapendone bene cosa fare. Hai visto mai che ci dovessero capire? Che ci dovessimo capire e scoprire? Scoprire che siamo enigma e domanda noi stessi?
E dire che ogni segno è un senso ed è pieno di cose.
Come in poesia, come a pregare, a interpretare, come a vivere.
Punto, per chiudere; e virgola, per continuare, che è un po’ come una carezza, la virgola, anche come segno grafico, bella da vedere, uno svolazzo: come il mezzo respiro nel canto. Ma che pure deve finire.
Le virgole e le carezze ad un tratto son terminate. Come nell’amore. E anche nella fede. E senza punto, le virgole non hanno più nessun significato: sono soffi di vento, leggiadri e dispersivi, poco più di una brezza che non porta nulla, solo un po’ di ristoro. E domani eccola di nuovo, la canicola che non sai come fare …
Le virgole promettono e i punti indicano una conclusione.
Erano autentiche? Erano vere? Domanda. O solo promesse di marinai sulla tolda ventosa della sera?
Punto e conclusione che nell’esistenza è sempre un bene dunque.
Siamo un continuum, noi, le nostre storie, ma non all’infinito. Viviamo tante cose e guai se il periodo fosse sempre lo stesso, come l’intonazione! La noia sarebbe mortale e allo stesso modo il fastidio.
Di vite se ne vivono molte, come i periodi fatti di proposizioni: alcune coordinate, altre slegate, alcune subordinate.
Ma questa è già sintassi e non volevo spingermi a tanto. La vita è il senso della misura, smisurato semmai può essere l’amore, fatto di punti di espressioni, di stupori di domande e di parole “fine”.
Punto, dunque.